La Befana può senza alcun dubbio considerarsi uno dei personaggi più tipici e conosciuti del folklore italiano cui la fantasia infantile è tuttora legatissima. Personaggio mitico, personificazione della festività dell’Epifania che ricorda in ambito cristiano l’omaggio che i Re Magi offrirono a Gesù Bambino, questa creatura ha, però, origini assai più antiche, che affondano le loro radici nelle religioni precristiane.
Alfredo Cattabiani, nel suo bel libro Calendario, scrive che “il 6 gennaio era la data paleologica del solstizio d’inverno, nella quale si festeggiava il nuovo sole (…). Poi la festa venne adottata dalle chiese orientali purificata dagli elementi gnostici, sicché si trasformò nella quadruplice celebrazione della nascita di Cristo, dell’adorazione dei Re Magi, del suo battesimo e del primo miracolo di Cana”.
Molto prima della venuta di Gesù, in Egitto si celebrava il 6 gennaio la nascita del dio Eone dalla vergine Kore con una processione rituale sulle sponde del Nilo. Parimenti la dea celtica Epona può essere paragonata alla nostra Befana, ma anche alla greca Demetra, a Diana patrona della stregoneria, alle dee Berchta e Frau Holle della mitologia nordico-scandinava. In genere Epona era raffigurata su un cavallo, o posta accanto a dei cavalli, con una serie di oggetti simbolici ed era spesso sistemata in piccole edicole nelle stalle, con il compito di proteggere gli animali e di favorire l’abbondanza dei raccolti e la fertilità degli animali d’allevamento.
Il tempo solstiziale
Per gli antichi il tempo del solstizio d’inverno era ritenuto sacro e occasione per festeggiare la rinascita del sole: da quel giorno, infatti, le giornate cominciano ad allungarsi e il sole riprende vigore, nonostante la stagione diventi più fredda. Nel grande nord questo tempo durava nove giorni e nove notti: erano le magiche notti di Odino, durante le quali il mitico condottiero percorreva con la schiera dei suoi valorosi guerrieri l’arco del cielo, portando doni ai comuni mortali.
Nella Grecia antica era la dea Hera a percorrere il cielo portando doni e abbondanza durante dodici notti solstiziali. Hera, legata a Diana – da cui Herodiana, in seguito mutata in Erodiade – era la dea notturna per eccellenza, che soprintendeva al noto “Corteo di Diana”, in cui le donne pagane compivano i loro sortilegi, donne che dopo l’avvento del Cristianesimo divennero malvagie e dissolute, votate a Satana, snaturando così la loro vera origine legata ai culti di fertilità e abbondanza. Questa decadenza spiega anche, con tutta probabilità, l’aspetto attuale delle Befane: donne brutte e sdentate, dai capelli arruffati e coperte di miseri stracci, proprio come le streghe che ben conosciamo.
La Befana nella tradizione popolare
In Italia la figura è molto popolare in tutta la penisola, anche se il termine deriva probabilmente da una parola di origine toscana. Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio la vecchietta, che si muove volando su una scopa (altro attributo proprio della strega), scivola nei camini con il suo capace sacco pieno di doni per i bambini buoni e di carbone per quelli che durante l’anno appena trascorso si sono comportati male, e sistema i medesimi nelle calze appese a bella posta vicino ai letti. befana-2
In Toscana vi è anche la canzone della Befana, la “befanata”, canto sacro, ma più frequentemente profano, che un giovane travestito da vecchia e accompagnato da suonatori ripete di casa in casa la sera dell’Epifania.
Le Befane italiane sono suddivise in una certa quantità di “tribù”, diverse da regione a regione. Ci sono le Ardoiee del circondario di Belluno; la Berta e la Giampa, sempre nel Veneto; la Donnazza di Borca del Cadore; l’Invidia, diffusa nel pesarese, che percorre le contrade portando cattiveria e mala sorte a chi ha la sventura di incontrarla: la Maratega e la Redodesa, che vivono lungo il corso del fiume Piave; nel bolognese ci sono le Borde, che provocano la nebbia. A Iesi abitano le Vecchie, nella Val di Chiana e nel circondario di Arezzo le Vecchiarine. In Istria ci sono le Rodie, che corrono cavalcando le nuvole nel vento impetuoso che, quando scoppia un temporale, spinge la grandine sulle campagne.
Anche in Lombardia la Befana si confonde con una creatura del vento. Nel milanese si dice che “balla la vèggia” quando si vede un tremolio di luce prodotto dai vapori sottilissimi che si sollevano da terra nelle giornate canicolari. Così nel pavese chiamano “vèggia” o “gibigiana” il medesimo fenomeno. Nel bresciano, invece, la “ecia” è più propriamente una strega; quando si vede sulle pietre il tremolio della calura si dice: “El bala la Ecia”. Si crede che questa strega torni sotto terra all’arrivo del freddo. A lei si devono i semi infecondi nei campi, il marciume delle erbe e le malattie delle bestie.
I riti dell’Epifania
Anticamente la notte dell’Epifania era anche l’occasione per praticare tutta una serie di riti apotropaici, in cui la tradizione cristiana si ammantava di paganesimo in un sincretismo davvero originale. E’ diffusa ancora ai giorni nostri l’usanza di “ardere la vecia”: un enorme pupazzo, composto da legna, stracci e fascine, di forma umana, viene posto su di una pila di legna e dato alle fiamme. La figura della “vecia” era una specie di capro espiatorio per esorcizzare tutto il male e per propiziarsi l’abbondanza e la fertilità dei campi. Con la distruzione della vecchia nell’immaginario popolare (forse un antico retaggio di sacrifici umani o animali) si intendeva rappresentare la fine di tutti i mali. La stessa cosa avviene la notte di Capodanno, quando si lanciano oggetti vecchi dalle finestre.
In alcune località del Veneto e del Friuli si lanciano delle ruote di legno incendiate lungo i pendii dei monti; il rito viene detto “rito della stella”, perché anticamente le ruote rappresentavano la corsa del sole nel cielo. Nel trevigiano era in uso fino a pochi decenni fa la tradizione della “notte del panevin”. Si accendevano grandi fuochi, appiccati dai bambini più piccoli del paese, e tutti prendevano a danzare attorno al falò, intonando un canto che recitava:
“Evviva il panevino,
la focaccia sotto il camino,
fagioli per i figli, fieno per i buoi,
polenta per i bambini, santità ed allegrezza”.
Nel modenese i contadini usavano colpire con un ramoscello gli alberi da frutta, ripetendo una filastrocca di buon augurio:
“Carga, carga, e tin, tin,
tan, treinta cavagn st’an ech vin
(caricati, caricati, e tienili, tienili,
fanne trenta ceste nell’anno che sta per venire)”.
Fonte: aurhelio.it
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