Fonte: OrticaWeb.it
La testimonianza di Anna De Rosa
di SARA SANSONE
È ancora possibile raccogliere con delicatezza diverse testimonianze dirette sugli anni atroci e difficili che furono quelli della Seconda Guerra Mondiale, e soprattutto circa la finestra di tempo durante la quale Civitavecchia stessa fu teatro di guerra.
Come mai Civitavecchia fu bombardata e divenne vittima di terribili bombardamenti?
È necessario sottolineare e fare una digressione sul ruolo di Civitavecchia nella fitta rete di interessi internazionali. La città portuale si è rivelata un tassello fondamentale della strategia ingannevole degli Alleati per permettere la messa in atto la Campagna d’Italia.
Civitavecchia fu bombardata dagli americani e non dai tedeschi, questo è un dato importante e da mettere sotto i riflettori perché in molti tendono ancora a confondere le dinamiche di quel triste 14 maggio 1943.
Gli alleati per disorientare i tedeschi attuarono un piano che ebbe il primo impulso con il ritrovamento a largo delle coste spagnole di un uomo chiamato Hillary, il cui cadavere, prelevato da un ospedale di Londra, fu vestito con l’uniforme di Maggiore Britannico e, fatto ancora più importante, gli furono messi in tasca dei documenti che attestavano il primo passo dell’invasione europea alleata in Sardegna.
L’attenzione tedesca fu rivolta così immediatamente verso l’isola e i porti di sbarco tra cui figurava anche Civitavecchia. In realtà i piani anglo-americani prevedevano l’inizio degli sbarchi con il cosiddetto Piano Husky, e dunque con lo sbarco in Sicilia, poi a salire con Salerno (operazione Avalanche) e Anzio (operazione Shingle, dopo l’armistizio italiano).
Civitavecchia era ignara di ciò che stava per accadere quel 14 maggio. Nessuno sapeva che quel giorno la propria vita e il volto della città sarebbero cambiati per sempre. I civitavecchiesi non potevano immaginare che si sarebbe dovuto ricostruire tutto, raccogliendo con carriole cumuli di macerie, che avrebbero patito la fame e sarebbero dovuti fuggire cercando ospitalità tra Allumiere, Tolfa e Sutri.
Civitavecchia: il racconto di Anna De Rosa
Anna De Rosa aveva solo 10 anni. Era la secondogenita di una famiglia originaria di Torre del Greco, il cui papà aveva trovato lavoro al porto e sperando in un futuro migliore si erano trasferiti in città. In quegli anni a Torre del Greco non c’era lavoro e Civitavecchia era una città ricca di opportunità. Il Porto dava lavoro a tantissime persone che si trasferivano da ogni latitudine d’Italia e prevalentemente dal sud. Poi c’erano anche altre occupazioni tra cui la fabbrica del baccalà alla Darsena, la fabbrica della sambuca Molinari, il Cementificio che da solo dava lavoro a 600 persone.
Anna stava giocando insieme ai suoi fratelli davanti alla chiesa dei Cappuccini. Nel 1943 quella zona non era ancora completamente urbanizzata. La Caserma Giorgi era operativa ma attorno alla chiesa c’era una vasta zona di campagna, debolmente urbanizzata e da cui era – ed è ancora possibile – osservare la città dall’alto e in particolare il lungomare.
All’improvviso ci fu una grande confusione e dal cielo videro cadere le prime bombe. Anna, i suoi fratelli e gli altri bambini furono portati al riparo dentro alla chiesa dove, finiti i bombardamenti, i genitori spaventati andarono a cercarli. Il papà di Anna, Gabriele De Rosa, era senza scarpe, non aveva fatto in tempo a mettersele correndo via da casa per cercare i figli. La famiglia abitava in Piazzoletta dell’Olmo, vicina all’attuale Piazza Calamatta, dove fino al 1943 c’era il municipio comunale, raso al suolo dalle bombe.
Uno dei suoi fratellini non era con loro quando caddero le prime bombe. Due soldati incontrando il bambino, spaventato e confuso, gli raccomandarono di non muoversi da lì perché se si fosse spostato sarebbe stato più difficile trovare i suoi genitori.
Tra macerie, detriti, calcinacci e vetri di lampadine disseminati per strada, famiglie intere iniziarono a fuggire da Civitavecchia cercando riparo altrove.
C’era poco tempo per pensare e per farsi dominare dalla paura e dallo sgomento. Bisognava recuperare i pochi averi, i familiari e andare via. La famiglia De Rosa era numerosa e la più piccola della famiglia, Annunziatina De Rosa, aveva appena 40 giorni. Nella fuga quasi venne dimenticata nella mangiatoia dei cavalli, dove era stata messa da un’amica di famiglia in attesa che la mamma venisse a riprenderla.
Dopo essersi ritrovati iniziarono la fuga verso Allumiere. Tante famiglie furono accolte in collina, poche ebbero la possibilità di allontanarsi in auto sfruttando il traffico sparuto di Via Tarquinia o di salire sul treno tra le cui linee era ancora attiva la Civitavecchia-Capranica-Ancona, un collegamento importante allora come potrebbe esserlo ancora oggi se fosse ripristinato.
L’accoglienza collinare non fu sempre molto gentile. Dopo aver sistemato nelle scuole famiglie intere per i successivi due anni i problemi più frequenti erano legati all’alimentazione.
Tra persone oneste e disoneste, purtroppo primeggiavano quest’ultime che per una manciata di grano o di riso e un pezzettino di lardo o di pane chiedevano in cambio cappotti, oro, scarpe. Per poter mangiare durante le prime settimane barattarono il vestito del battesimo di Annunziatina.
Il papà, Gabriele, si era sottratto all’arruolamento e rischiava di essere fucilato. Insieme al figlio più grande scendevano in città per chiedere da mangiare ai soldati od ottenere oggetti da scambiare in paese con il cibo. A piedi da Civitavecchia ad Allumiere tornavano con un paio di secchielli di cibo, mischiato tra marmellata, sugo, frutta e tutto ciò che riuscivano ad arrabattare.
L’acqua per fortuna non si doveva pagare. Vicino alla scuola di Allumiere dove erano ospitati gli sfollati, chiamati anche sfondati nel gergo locale, dove ora c’è un parco e un monumento, c’erano gli abbeveratoi per i cavalli che furono usati non solo per approvvigionarsi l’acqua ma anche per lavarsi e lavare i vestiti.
Quando finì la guerra e poterono tornare a Civitavecchia dovettero affrontare come tante altre famiglie nuove difficoltà. Tra queste c’era il procurarsi un tetto sotto cui stare.
L’80% delle abitazioni era stato raso al suolo. Anna ricorda bene che solo due dei quattro muri di casa sua erano rimasti in piedi e che a causa di ciò lo Stato non diede alla sua famiglia neppure l’indennità di guerra che in ogni caso era gran poco per ricostruirsi una vita.
L’unico modo per avere una casa all’inizio, prima che furono costruite le case popolari che nella maggior parte dei casi dovevano ospitare sotto lo stesso tetto due o più famiglie, era l’occupazione. Ogni casa occupata veniva segnalata con dei fogli di carta con su scritto “occupato dalla famiglia..”.
Furono anni estremamente difficili, durante i quali fu ricostruito tutto molto lentamente e poco a poco tornò ad attivarsi il mercato lavorativo. Gabriele De Rosa per molti anni fece il pescatore e per tirare su qualche lira in più vendeva il sale ricavato dall’acqua marina agli allumieraschi che lo utilizzavano per condire la carne di maiale.
Fino al 1946 qualche soldato americano continuò ad essere di base a Civitavecchia e le famiglie con ragazze giovani o donne nubili avevano paura delle violenze sessuali che spesso subivano dai soldati.
Anna ha raccontato la sua testimonianza con il desiderio che venga letta soprattutto da chi ancora oggi vuole la guerra, affinché possa capire il dolore provato dalle famiglie in quegli anni.
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